domenica 23 ottobre 2011

ISACCO TRAVEL – I PARTE

A Davide
Mi ha regalato il biglietto per il Pukkelpop. Desidera tanto andarci insieme. Continua a ripetermi che è un’esperienza unica: il più antico festival internazionale della musica a settanta chilometri da Bruxelles, dove sono rappresentati tutti i generi musicali. È diventato estenuante.
“Ok, Vestax, andiamo. Ma tu pianifica tutto. Non voglio preoccuparmi di nulla!”, anche se in cuor mio sono cosciente della sua disorganizzazione cronica. Gli è sempre andata bene finora, dobbiamo ammetterlo. Ma un conto è viaggiare quotidianamente per suonare (leggi anche “vivere”) e un conto è organizzare efficacemente un viaggio. Tentando di stupire una persona che ti ritiene incapace di farlo.

18 agosto
Lo odio. Odio tutto di lui. Mi sono fidata, ancora una volta ed è questo il risultato. Con un piccolo disco boy-dj a chiedere una minestra di cipolle di fronte la chiesa di Sant’Olav. Abbiamo fame, tanta. Ma nessuno sembra notare la nostra presenza. Vestax continua a fissare le scarpe bianche con i ciuffi di erba che inspiegabilmente sono incollati alla suola destra, da sempre. Me li fa notare, ma proprio non riesco a sorridergli. Vorrei raccontargli che il campanile della chiesa di fronte a noi aveva la funzione di segnale per la navigazione, il che spiegava l'altezza tutto sommato insolita rispetto agli altri edifici della città. Ma la rabbia per essere qui e non al Pukkelpop è tanta. È l’ennesima dimostrazione che non dovevo seguirlo. Che non dovevo fidarmi, che dovevo prendermi ancora del tempo. È una bugia quando ti dicono che per conoscere a fondo una persona, una convivenza – come per esempio questo viaggio- può essere d’aiuto e che quindi va fatto. Forse è anche vero. Ma bisogna ragionare, sempre. Bisogna scegliere con criterio, soprattutto se non sei un adolescente.
Un ragazzo con una 93R si avvicina e ci grida qualcosa. Vestax gli spiega in inglese di non capirlo.
Il boss estone azzarda con inglese slavizzato domande a me impercettibili. Vestax lo tranquillizza che ci troviamo lì solo per disperazione. Non lo seguo più. Inizia ad improvvisare, e quando improvvisa mentendo, si tocca sempre i capelli e intercala ogni due parole “eh…eh…”. Aggiunge che io sono di Bucuresti e lui è il mio Papi. Che possiamo lavorare per lui dato che abbiamo perso tutto. Cerchiamo protezione, solo protezione. Il ragazzo sembra non avere più pazienza e ci chiede di seguirlo. Noi avanti e lui dietro con la 93R carica. Mi tocco la tasca, e sento l’ISACCO, il borotalco che porto sempre dietro. È una questione di secondi lo spruzzo negli occhi e corro prendendo la mano di Vestax. Forte più forte del vento. Sento il cuore uscire dalla gola, ma non importa. È la paura stessa che si spaventa di noi. Insieme.
Tre giorni interminabili senza mangiare. Vestax era già sottopeso, ormai si intravedono solo le ossa. Il sole di Tallin sembra trapanarci la fronte e l’acqua per l’irrigazione dei giardini pubblici è l’unica fonte di piacere e nutrimento. Ho seriamente pensato che mi divide poco dalla poltronissima gold in paradiso. Ma non riesco ancora ad odiarlo per avermi trascinata in questo viaggio senza ritorno. Non ho neanche la forza di aggredirlo, come vorrei. So quanto ci tiene a me. E so che mai avrebbe voluto farmi vivere un simile incubo.

03 settembre
Vestax è costantemente bianco latte. Ha rischiato brutto. MataHari la meretrice più famosa di Tallinn l’ha accoltellato sotto la porta della Città Vecchia, qualche giorno fa. Lui non ricorda il motivo. Ed io non sono d’aiuto perché quel giorno stavo lavorando al bar Levadia dove un paio di volte alla settimana faccio la cameriera. Il proprietario del bar, Lennart mi ha spiegato che Matahari è psicolabile. Si ammalò quando un musicista italiano la lasciò incinta del loro unico figlio, che perse poco dopo. Forse aveva rivisto in Vestax quel suo unico grande amore  e pugnalare lui era una sorta di rinascita, di trionfale e nietzschiana vittoria. Un po’ come Dorian Gray con la sua tela.

Tutto è sempre così surreale. Voglio tornare a Sperlonga. Voglio tornare dal mio mare, nella mia casa bianca con gli infissi blu. Invece mi tocca sperare che Vestax si riprenda presto, comunicare in una lingua incomprensibile e aspettare che qualcuno si accorga di noi e ci aiuti a tornare.

9 settembre
Tallinn-Stoccarda, su un autobus pieno di badanti polacche che faceva scalo lì ma era diretto in Francia. Vestax mi ha convinta dopo essersi già spacciato per mio marito con l’autista. Gli ha spiegato che sono un’ alcolista e ho scolato tutti i nostri risparmi. Per questo deve riportarmi nella terra natia, in quanto lo psichiatria ha consigliato la vicinanza familiare per il recupero e l’eventuale disintossicazione. Vestax è sorprendente. Ha affinato le potenzialità teatrali. Non si tocca più i capelli. E’ anche riuscito ad abbozzare un mezzo pianto. L’autista ci ha trasportati gratuitamente, proibendo addirittura a tutte le passeggere di caricare superalcolici. Ci siamo guardati, sorridendo. Ormai la disperazione ha ceduto il posto alla carica adrenalinica che tutto questo comporta. Stiamo condividendo il peggio di ogni esperienza che avremmo potuto vivere sotto lo stesso tetto, se avessimo per esempio optato per una cattolica convivenza.
Ormai ci stavamo adattando a questo tipo di esistenza così cinematografica. Certo sarebbe bastato un lavoro e qualche soldo in più e forse si sarebbe parlato anche di felicità. Sembrava un film di Sergio Leone. Sembrava quasi una sceneggiatura perfetta. Ma soprattutto: sembrava che lui fosse l’unico con cui potevo trovarmi felice, lì.

15 settembre
Abbiamo iniziato a lavorare come donne delle pulizie in un motel, vicino la Chiesa di San Leonardo. Lo prendo sempre in giro per questo: “Vestax sei una donna delle pulizie”. Lui mi guarda e ride. Si asciuga la fronte e mi canta qualche canzone napoletana. Sa quanto apprezzi tutto questo. Il suo sforzo nel mio dialetto. Invano, ovviamente. Non resteremo molto tempo qui.
“Fidati di me. Riusciremo a tornare a casa. Fidati di me”. E paradossalmente quando me lo dice, è l’unica persona con cui girerei l’intero mondo in mongolfiera. So di potermi fidare. Sì, è tutta colpa sua. Ma mi sto abituando a tutto. Anche alle sue fobie.
Così verso ora di pranzo mi slaccia la divisa verde che copriva ormai vestiti consunti e intrisi di speranze e mi chiede di seguirlo . Metro di Feuerbach e ad attenderci c’è un cliente del motel con cui aveva fatto amicizia, Helmut. Helmut è un camionista. Trasporta il Kuhn Milk in Svizzera e nel Nord Italia. Ci aveva promesso un passaggio fino a Milano.

19 settembre
Siamo da due giorni a Zurigo. Helmut voleva qualcosa di più da Vestax. Lui non mi aveva confidato che al motel veniva sempre con dei giovincelli esili e gentili. Quando durante la guida ha poggiato la mano nel suo interno coscia, mi son sentita soltanto il gomito di Vestax trapassarmi lo stomaco. Ormai non dovevamo neanche più comunicare vocalmente. Mi era tutto chiaro. Durante il pranzo, mentre Helmut si era allontanato per urinare, siamo usciti fuori a fumare. Per non destare attenzioni e perplessità. E poi via.
Di nuovo per mano più veloci del vento.

sabato 22 ottobre 2011

SPADE & SPAGHETTI (racconto)

A D.
La pasticceria Borgia si trova di fronte la Basilica di San Salvatore , dove mio padre decise di cresimarmi appena fu possibile l’adozione. Era un uomo davvero molto cattolico, ma in quell’occasione mi presentò soltanto alcuni dei suoi dipendenti, perchè invitati in chiesa.  Aggiunse che non era il momento opportuno per visitare la roccaforte della sua fortuna. Quella locuzione “momento opportuno” mi sembrò del tutto fuori luogo. Forse aveva invertito il tutto. Era la  scelta di fede da riferire a dio, che andava fatta in modo oculato e personale, non la conoscenza di un posto così suggestivo ed eccitante solo alla vista.
Optai per il silenzio, capendo subito che la solitaria libertà era stata (forse) annientata dall’adozione di un servo per un padrone. Un padrone che odiava la solitudine e la vedovanza.
Scelsi di fare lo chef in un giorno di settembre. Ricordo che nella mente continuavo a sentire l’oboe di Gabriel che mio padre mi aveva fatto apprezzare pochi minuti prima. Non volevo distaccarmi da quelle note così celesti. Aprii la porta emozionato e trovai gli occhi verdi di Ael. Era poco più grande di me. Ricordo che l’oboe fu spazzato via dal battito accelerato forte, sempre più forte… impallidii con la paura che tutti i presenti sentissero la mia emozione, perché era questo che continuavo a ripetermi: “ è solo un’emozione, Leone”. Ma a cosa serve un’emozione se non sai esprimerla a parole? Il mio posto era lì, di fianco ad Ael. Volevo costruire il mio futuro in quel mondo così vivo e pieno di colori ed odori che influenzavano i sensi.
Il signor Borgia mise anni ad accettare questa mia scelta. E per quest’ultima non intendo solo quella lavorativa. Il concetto di scelta include il mio modus operandi  coerente alla mia essenza. Da bambino era stato privato coattivamente di innocenza prima, e di un’infanzia, poi. Non potevo e non dovevo proibirmi di altro. Non potevo precludermi di scegliere la vita, di scegliere la libertà, di scegliere le mie emozioni. È ovvio i consigli e i consensi sono sempre presenti in un’esistenza. Se ne ha bisogno in modo continuo e costante.  Sfido chiunque a trovare un uomo che non cerchi conferme. D’altro canto consigli e consensi sono inutili se dispensati con pregiudizio e senza un atteggiamento empatico. Empatia, ascolto e un sorriso era questo che cercavo di continuo. Era questo che ritrovai in Ael.
Capii di amare Ael durante la preparazione di una torta al mirtillo. La signora Eroli l’aveva richiesta per il diciottesimo compleanno della figlia. La stava decorando, si fermò all’improvviso e mi fissò con quegli occhi verdi colmi di domande. Avevo paura della prima, determinante. Forse aveva capito? Forse vedeva un punto di non ritorno tra noi? Forse voleva dichiararmi la sua di emozio?
- Leone: sei ossessionato dai dettagli dei ricordi. A volte non capisco se lo fai per sorprendere chi ti ascolta o perché ci sei nato. Ogni volta che racconti poi, anche fatti recenti, ti riferisci ad un passato…come se non ci fossero mai delle ripercussioni nel presente. Sono anni ormai che ci conosciamo. Sono anni che trascorri “forzatamente” le tue otto ore quotidiane al mio fianco… beh, ora dimmi, Leone, che c’è, cosa c’è che ti blocca? Cosa c’è che non ti fa parlare di un solo ricordo, del tuo vero passato? Quali sono i veri dettagli a darti il tormento, tanto da diventare la tua unica ossessione?
La signora Eroli non ebbe mai la decorazione, ma apprezzò lo stesso l’accostamento di crema e mirtilli. Ael, invece, continuò a fissarmi. Volevo farmi capire senza troppe spiegazioni. Sapevo che erano indispensabili. Ma la vergogna e il conato erano lì, pronti a venir fuori da un momento all’altro. Volevo che quel terribile episodio morisse con me, come se non l’avessi subito... non esternandolo potevo allontarlo, negli anni.
Mi avvicinai, dolcemente. Presi le sue mani che ormai conoscevo più dei suoi occhi e le portai vicino la bocca. Volevo che smettesse di tremare e che mi perdonasse, perché convinto che non sarei mai riuscito a dire nulla di ciò che aveva realmente spezzato una vita. La mia. Nessun tremore, nessun sussulto, nessun imbarazzo. Era tutto naturale, era tutto già vissuto nella mia mente. Lo strinsi a me, forte. Ma non era una forza come violenza, mai avrei potuto. Era protezione, la stessa che ricercavo da sempre. Volevo proteggerlo dalle mie verità, dai miei dolori, dalle mie paure. Volevo che fosse preparato alla consistente dose di pazienza che doveva impiegare se sceglieva di amarmi. Lui era l'Amore, dal primo sguardo. La mia prima emozione autentica. Puntavo alla reciprocità.
Ogni flusso di pensieri, dubbi, tentazioni fu interrotto dal suo respiro. Era intenso, vivo e su di me. Di nuovo l’oboe di Gabriel. Lo sentivo sempre quando giungevo all’Abbandono. Avevo scelto di abbandonarmi nel respiro di Ael. Sentivo il ribes ancora ammorbidirgli le labbra e la vaniglia dissolta tra i capelli. Poi i sapori e gli odori si confusero lentamente, come se Ael fosse in grado di racchiudere la parte migliore di ogni ingrediente per esprimere l’unità incantevole della sua arabica bellezza.
Preparò un tè e dei biscotti alla cannella, lasciandomi contemplare la sua rassicurante nudità nel silenzio.
Raccontai così delle mie passeggiate sulla spiaggia a Viareggio, da bambino.  Per scendere a raccogliere le conchiglie bastava che avvisassi qualche padre dell’ orfanotrofio.  Casa – spiaggia scarsi cento passi. Solo cento passi. Sarebbe bastato un urlo. Sarebbe bastato gridare un nome.Sarebbe bastato gridare aiuto. Non feci niente di tutto questo. Mi rassegnai alle voglie perverse di un rispettabile signore del posto, che vedevo sempre in chiesa con la moglie la domenica. Sento ancora quelle mani di notte. Vedo ancora la malattia tappargli le orecchie e la vista. Non lo riconosci il pianto di un bambino? Si spezza così la sua voglia di vivere. Si distrugge così la sua capacità di amare. Si diventa inabili, sì. Si vergogna, si reprime, si punisce. Anche se resti una vittima.
Ricordo ancora le sue lacrime, sempre silenziose, scendere su tutto il corpo. Percepivo l'imbarazzo nel suo sesso scoperto, in quel momento così difficile per me. Volevo subito calmarlo. Non volevo obbligarlo ad un comportamento “diverso”. Un trattamento di “favore” perché ora vedeva quel bambino sofferente.
Decisi di svelarmi sì, ma per una ragione diversa. Ael doveva conoscermi. Conoscere per scegliermi. La scelta è possibile solo nella conoscenza. Amare Ael fu naturale ed incondizionato, dal primo sguardo.  Provare ad essere il suo compagno per la vita avvenne solo dopo quella confessione. Il mio primo atto di amore.
L’oboe di Gabriel.

CAMPO - (a C^2)

Il Campo era casa, per lui. Dieci anni ormai che era lì. Entrò il sei giugno alle sei e ventisei.
Varcò la soglia dello scuro portone con un gallo in porcellana come portaombrelli. Guardava tutto con un ingenuo sorriso, avvicinando la valigetta che conteneva il vero e solo tesoro.
L’unico che gli fosse rimasto.
La Claire voleva semplicemente aiutarlo con i bagagli. Ma con quel gesto le fece subito capire che lui non era come tutti. Lui conviveva perfettamente con la solitudine ed il più gran dolore.
Si trovava lì, perché sapeva che lei avrebbe sofferto a vederlo solo. Era lei che vedeva in quei posti l’unica ricetta per curare gli uomini anziani e soli. In qualche modo, cercò di obbedire, fino all’ultimo, alla sua volontà. Anche nella distanza.
Ogni giorno era uguale all’altro. Seduto sulla sedia a dondolo di fronte il camino con il sigaro in mano. Di fianco, gli altri abitanti del Campo giocavano a carte o scacchi, le donne si davano alla lettura o tv. E poi anche a cena, aspettava che tutti finissero per prendere la sua pietanza serale e gustarla in camera. Se persisteva la voglia. Solitamente, infatti, dinanzi il ritratto incorniciato nell’argento, giungeva l’inappetenza. A volte, un fragoroso pugno sul tavolo era il preludio di uno straziante pianto. L’ aveva ancora davanti, come fosse ieri. E prima di sprofondare in un sonno inquieto, pregava per rincontrarla al più presto.
Non si accorse subito di me. Era troppo concentrato sul suo dolore. Il male lo avvolgeva senza farlo respirare.
Ogni giorno andavo al Campo, con la scusa del pranzo. Tutti erano felici di vedermi. Fondamentalmente mi vedevano come una nota di colore in un film bianco e nero. E poi ero abbastanza affettuosa, difficile essere prevenuti. Inoltre, gli anziani sono come i bambini, anche se non lo dicono, amano esser coccolati. Io coccolavo un po’ tutti senza preferenze. Poi, prima di andar via, sedevo su un piccolo sgabello, di fianco a lui. E osservavo come boccheggiava il suo sigaro cubano.
Una sera decisi di andare al Campo. Senza preavviso. Potevo sempre avere la scusa della cena, qualora avessero provato a cacciarmi. Non trovai la porta secondaria chiusa, come sempre. Ed entrai velocemente. Non c’era nessuno sveglio, ero tentata di andar via. Poi, di un tratto, lui, con la sua classe e naturalezza, eleganza e virilità, Jean Luc. Mi disse: “ Vieni qui, non aver paura”. Strisciai adagio, sul pavimento, quasi il peso del corpo mi tirò lì per chissà che legge fisica.
Sedetti al solito posto: sgabello e lui sulla solita sedia a dondolo. Aveva un disperato bisogno di parlare. Forse perché si fidava. Mi vedeva innocua. E così il suo racconto. La sua unica donna, “il primo amore sulla luna”: Louise.
“Louise era una giovane giornalista, quando ci incontrammo la prima volta. I suoi occhi verdi creavano giochi di luci in tutto la sala dove di lì a poco mi sarei esibito con il mio celeberrimo violino. La notai subito. Forse perché la sua sicurezza trasudava in ogni punto. Sapeva fortemente cosa voleva. Mentre insistevo sulle corde, vedevo la languidezza smeralda ammaliante. Pronta a spargere nuove vittime. Non era un’ ingenua provinciale della redazione, come la presentò acidamente la sua redattrice, a fine esibizione. Louise, complice delle mie insistenti attenzioni oculari, sapeva di destare invidia. Soprattutto dalle sue vecchiarde colleghe. Le chiesi come mai un nome così aggressivo. E mi fu chiaro da subito che ogni cosa di lei, sarebbe oscillato tra il fiabesco e il romanzato. La leggenda narrava che sua madre ruppe le acque, mentre assisteva alla rappresentazione della Luise Miller di Verdi. Quella risposta mi lasciò senza parole. Aveva capito come suggestionarmi dalla prima battuta.
Quella sera stessa, passai a prenderla nell’ albergo dove alloggiava. Si era vestita di tutto punto. Un sobrio abito floreale sui toni del blu. Non era alta sartoria, ma Louise era realmente una giovane di provincia che soltanto grazie all’ aiuto di uno zio facoltoso aveva potuto studiare.
Erano gli anni in cui uscì The Wall dei Pink Floyd. Gli anni delle prime donne al governo, Margaret e Marie. Della morte di Aldo Moro. Del trio presidenziale: Nixon, Ford e Carter, che rispettivamente governarono gli USA. Di Papa Paolo VI. Dei Bee Gees, dei Queen.
E dell’ esordio di George Lucas.Ed è in questo scenario, che conobbi Louise.
Era pronta a farmi respirare amore. Anche se in quella serata ancora non sapevamo nulla. Volevamo stare insieme, e vivere questa attrazione fatale. Mentre andai a prenderla, continuavo a chiedermi, quanti ne avesse divorati, lei, mangiatrice di uomini, femme fatale, rossa dagli occhi smeraldi, che chiedeva solo di far l’ amore.”
Mi avvicinai a lui, per ascoltarlo meglio.
“Cara amica, quella notte continuavo a ripetermi che non dovevo andare. Che era l’ ennesima nostalgia di amore, la pretesa di un amore impossibile, non comprato come gli altri. Ero cosciente. Ma amica mia, la nostalgia cos’è? Io mi sentivo perso, avevo bisogno di un’ ancora per salvarmi dall’ abisso in cui ero sprofondato con una vita selvaggia e sregolata. La vita d’ artista. In cui sarei ripiombato, appena comparsa la noia con il nuovo gioco. Ancor prima di averla, pretendevo di possederla. L’esclusiva su di lei.
Dopo quella notte, cara amica, i mesi più rosei. La felicità mi venne a bussare. Diventammo inseparabili. In tutto. La prima settimana dopo il primo incontro, fu fuoco e fiamme. Era la donna più passionale che avessi conosciuto. E appena prima di finire, pensavo già alla volta che sarebbe seguita. Non volevo lasciarla mai sola, se fosse stato possibile, non mi sarei esibito per un anno. Dovevo recuperare tutto il tempo perso con Louise.
Eravamo incoscienti, giovani e bizzarri. Dopo poco, come prevedibile, rimase incinta. Era una notizia che fino a poco tempo prima mi avrebbe agitato e angosciato. Ma lì, con lei, diventar padre era la realizzazione e definizione del nostro rapporto. Mi chiedeva sempre di suonare per lui o lei. Diceva che il bambino si rilassava con le mie dolci note. Componevo anche due melodie al giorno. Ero romanticamente ispirato. Era lei la mia ispirazione.”
Lo vedevo lacrimare. Il dolore era sempre più cupo.
“ Il giorno che scelsi di fare la classica proposta eravamo in viaggio. Era il sei di giugno. Il giorno del suo compleanno. Bella come non mai. Un foulard le avvolgeva il capo, e un lungo abito rosa e immacolato, le si stringeva sul pancione della nostra Micol. Così avevamo deciso di chiamarla.
Guidavo la mia alfa romeo 1750 coupè rossa fiammante. Quando, d’ improvviso, un grande furgone deragliò su di noi, gettandoci contro un muro. In un colpo solo, persi ciò che amavo davvero nella mia vita”
Si slacciò la collanina che indossavo al collo. “SOULEI” era inciso sul ciondolo. Jean Luc me la rimise.
“ Cara Soulei, da quel momento ad oggi, non ho mai smesso di amarla. L’ affanno e l’ inquietudine non mi abbandonarono mai. Neanche un’ ora di un sol giorno. Ho suonato e continuato a comporre. Purtroppo Louise mi illuse che la musica può nascere solo dalla felicità. Ma non è così. E’ la disperazione che mi porta a comporre, ora. A fare musica. La voglia di far rivivere Louise nelle mie note. Di dedicarle le mie più dolci preghiere. Di accarezzarci nudi, sfiorandole le dita, per un’ ultima volta. Ed il silenzio, l’ alcol e il sonno sono la cura che fino ad oggi hanno alleviato la ferita. Ora, in questo posto, qui al Campo, spero di trovarne un’ altra di cura, una ancora , che sia salutare.
Adesso però , lasciami riposare. I ricordi sanno abbatterti fisicamente”.
Lo lasciai alle note di Morfeo. Iniziai a fargli le fusa intorno la gamba sinistra, e poi saltai sulle sue ginocchia. Poggiò la mano sul mio lungo pelo grigio cenere. Non guardò i miei languidi occhi smeraldi.
E non pensò all’ anagramma. “ Soulei”.
A volte si può rinascere.
Anche dalla cenere.

giovedì 20 ottobre 2011

ROUGE DALI' (racconto) - a Katerfrancers

Non pensare non pensare non pensare …


Ho sempre trovato imprecisa la locuzione “problema di mente”. Il problema non è della mente, ma nella mente. E nella mia mente c’erano scatoloni di problemi, organizzati e ben distribuiti per ordine, numero e anno. Mi divertivo quasi a catalogarli. E alla fine di ogni “revisione” fissavo inchiostro sulla pelle come a fingere di mettere fine a quel periodo. Come se l’occuparmi di altro avesse contribuito all’effemira illusione di rinsavire. Rinsavire è nella lista delle parole che mi fanno sorridere, insieme a : firenze, latte, scout, bisex, vinile, power, casse, cadauno… stupido come gioco, ma è uno dei pochi momenti piacevoli dell’infanzia trascorsi con mio padre, uomo algido dallo sguardo sentenzioso.
Il  primo fra tutti a pretendere questa “ripresa mentale” , questo ritorno alla vita normale. Ma le menti come le mie nascono senza regole. Non fissano schemi, imparano a conoscerle a stento nel tempo. Senza adattamento sentendosi sempre al di fuori, sentendosi sempre escluse. E questo gli altri non riescono a “vederlo”. Allora ti chiamano “pazza”, “diverso”, “schizzata”, “paranoica”… non è solo una forma mentis, un diverso modo di vivere e PENSARE. Io penso, ma con un animo diversamente sensibile. Ed è per questo che poi mi trovo a rischiare il tutto per tutto in ogni momento.
Il complimento della gente, degli uomini, degli amici che adoro di più è: “ Sei davvero imprevedibile, amo questo di te”. Mi fa sorridere anche “imprevedibile”… che sono un meteo? E poi che vorresti prevedere? I miei silenzi,le mie battute, i miei sorrisi. No, mi spiace. Quello che ami di me è quello che non riesci ad essere tu. E’ l’abnegazione della tua parte migliore che ti colpisce di me. Perché io, nella mia lucida e rossa follia, la lascio libera. Libera di esprimersi.
E poi mi ritrovo qui, con i soliti ed identici problemi. Intossicazione cronica da ipocrisia,anemia, denutrizione, amenorrea, metereopatia e uomini in differita. Questi non mancano davvero mai, forse sono la parte più ludica della mia attuale esistenza. Tutte avranno avuto a che fare con un “uomo in differita”. Pensavo fino a poco tempo che fa che la categoria maschile peggiore fosse l’EX. Mi sbagliavo. Non che fosse necessario cercarne una, qui non si danno premi ai migliori, darlin’. Gli uomini non sono né essenziali né necessari; sono semplicemente piacevoli. Hanno il dono della piacevolezza, rendono piacevole la tua esistenza. E poi hanno anche il dono di peggiorare il tuo equilibrio precario. Che con affanno e tempo cerchi di consolidare. Non che ci sia una tecnica prestabilita e congenita. Ma arrivano e mettono in crisi il “sistema identity” che sembrava inviolabile fino a pochi minuti prima. E fra tutti i migliori sono loro: i DIFFERITI.
Ancora ricordo la mia supernova: Jean More. Les Deux Magots cafè. Bocca impastata di jack, avevo appena finito la serata. Erano le sette di mattina. Appariscente come poche. Due X sulle pseudotette invisibili che ho, una pelliccia bianca di similpelle, un jeans che schiacciava le pacche fino alle scapole. La chioma rouge e afro. Mi dimenavo per difendere dignitosamente la causa delle maghe rumene costrette a pagare i contributi allo Stato perché riconosciute a tutti gli effetti delle lavoratrici. Il mio gruppo rideva istericamente. Ma io davvero le avrei difese di fronte la Corte di Giustizia… qualche giorno prima, mentre urinavo in bagno, leggendo la notizia rimasi scioccata.
Non lo avevo ancora guardato. E poi eccolo, lo sguardo che colpisce e affonda su F9. Nel suo abito nero con il cravattino impuntato di fleur de lis rossi… volevo gridargli “hai vinto!sei un figo e hai vinto, fratello!”. Poi guardai le mie pseudotettineocchidivergenti e capii che non avrei mai potuto incuriosire un uomo così diverso da me. Invece nello stupore della compagnia ubriaca, Monsieur More si avvicinò con il suo caldo cappuccino “complimenti per la mise, milady!” Potevate pungermi con tutti gli aghi delle sedute di Chao Mao, non sarebbe uscita una goccia di sangue.
Due giorni dopo mi ritrovai sommersa di gigli nella sede della mia etichetta discografica, con tanto di biglietti romantici e numero telefonico dell’uomo d’azienda quale era (ovviamente l’azienda fu googlata prima ancora di leggere il biglietto… roba da donne). Mi ritrovai un bel giorno di febbraio con un appuntamento a  Cafe de Flore sempre per la regola #1 “un caffè è come al limone: non si nega a nessuno”. E poi l’insistenza di More era davvero ammirevole, diciamolo. Parlammo di noi, del suo lavoro, dei miei ritmi, della sua casa appena arredata (ansia da risparmio in banca che non c’è),i miei concerti, i suoi non vizi, i miei vizi. Optammo per casa sua. Sì, lo so …non si fa…bla bla bla. Non mi interessava. Jean More era anni luce distanti da me, ci aveva cercata per un mese e mezzo (mai nessuno come lui) e andava premiato. Ma soprattutto gli sarei saltata addosso quella mattina a Les Deux Magots.
Jean More meritava. No, non era l’uomo delle grandi acrobazie ma delle forti prestazioni sì. Decisamente meritevole e stupefacente. E fu così che rivestendomi insistette per riaccompagnarmi. Quanta gentilezza in un uomo solo. Mi sarei quasi potuta commuovere. Due lacrime:occhio destro e sinistro, mi rivestii e via, a casa.
Non pretendevo altro, poteva morire lì la cosa. Ero sempre stata un’amante delle improvvisazioni: “suoniamo, ci divertiamo, ci salutiamo con dignità”. E invece no, Monsieur More era forse un primo omino piacevole e anche interessato alla sottoscritta, nonostante fossimo poco idonei l’uno all’altro. Proseguirono altri due incontri, un pranzo e la visione di “Some like it hot” in un cinema che dava solo vecchi film. “Rouge è originale, dai!”pensai.
E poi si giunge tristemente al decadimento dell’uomo in differita. La peculiarità è questa. Lui fa e disfa. Lui insiste e non desiste. Lui martella, lui ti scopa. Lui continua a cercarti e lui sparisce. Con la stessa facilità con cui fa tutte queste cose: l’uomo MULTIFUNZIONALE. Svanisce senza darti un motivo, un pretesto, una scusa. Non perché tu debba elaborare il lutto. Non c’è stato neanche il tempo di rendere questa conoscenza un dramma esistenziale. Semplicemente è la situazione che vorresti capire. Analizzare, per vedere cosa fa di te una “allontana uomini”. Ma poi si giunge alla fase 3: la consapevolezza che il problema non sei tu. E’ la codardia degli altri che poco si adatta alla tua onestà mentale e la tua libertà morale.

Ogni volta che salgo sul palco o sto dietro una consolle, mi ripeto per tre volte quasi scaramanticamente “non pensare”. La verità è che con la musica mi sono salvata. Ed è lì che annullo ogni pensiero lasciando finalmente libera la mia follia.

LA FATA DI COPPEDE' (racconto)

Cecilia e diplomazia non andavano d’accordo nell’ultimo periodo. La peroni 66 sopra il comodino la predisponeva al nervosismo quotidiano che le strizzava i collegamenti sinaptici, annebbiando i pensieri più tristi che ormai non se andavano più.
Era costantemente alterata con il mondo. Non riusciva né a scrivere né a studiare. Tormentata dalle ansie e le angosce di tutti i suoi brutti colleghi. Perché erano brutte persone, come si divertiva a ripetere schiettamente a mente alcolica. Non dava più importanza a nessuno. Non aveva più interessi o passatempi. Non provava più emozioni, cosa impensabile per una come lei, dato che fino a pochi mesi prima anche affondare  le dita in un sacco di legumi le donava uno stato di eccitazione incommensurabile.
Solo una cosa la divertiva ancora, in questa profonda apatia: la metro A della mattina.
Le permetteva di sognare ad occhi aperti per otto minuti.

Ma cosa successe il cinque maggio duemiladieci alle cinque di mattina nel quartiere Coppedè?

Cecilia prendeva ogni mattina la metro A. San Giovanni – Repubblica, solo quattro fermate.
In quegli otto minuti mattutini che la dividevano da una lucida scrivania ikea, si innamorava. L’innamoramento metropolitano era tra i più romantici. Bastava uno sguardo e pensava a una vita con il Lui delle 7.26 in qualche vigneto della Normandia più due cani maremmani più tre bambini: Jean, Paul e Sartre più un grembiule a quadretti rossi e bianchi da sporcare con residui di uova e farina.
Ogni volta lo stesso pensiero, ogni volta un sorriso.
Una delle tante mattine disincantate trovò il Lui delle 7.26 invecchiato rispetto alla media.
Barba curata, baffi alla Gable, occhiali Gramsci e Sein und Zeit tra le mani, ovviamente come nota di merito. Dal completo scuro e la cravatta anni cinquanta bordeaux consunta, poteva essere un ricercatore universitario che bramava più di Gollum la morte dell’Ordinario. Ma anche un avvocato societario con la passione per l’esistenzialismo.  Mistero.
L’uomo rifiutava ogni forma di coinvolgimento: rientrava nelle regole di vita per quelli come lui, che sono abituati a finzione e nascondiglio. Non poteva permettersi un facile innamoramento con una callcenterista - aspirante regista con quei capelli corvini e quegli occhi blu. Non con quelle labbra morse con facilità e frequenza per sotterrare l’imbarazzo provocato dagli occhi di un uomo adulto, il vero Lui delle 7.26. Non con quelle lentiggini, segno evidente di un primo sole di maggio. Non con quella disarmante espressività, impensabile senza parole. Musicalmente una polifonia di voci equivalenti.

Un rifugio di classe per l’Innominato , il vero Lui delle 7.26: il quartiere Coppedè, una città nella città. Ludicamente una casa delle bambole, che  prima di oltrepassare l’arco, la soglia del non luogo, si osserva attentamente. E quasi  dispiace irrompere in un simile equilibrio di colori e odori medioevali. È un non luogo, un non tempo. Ma senza spazio e tempo c’è  un’ impossibilità conoscitiva, avvertimento che doveva cogliere la sognatrice: Cecilia. Non arrivò mai a scoprire cosa quell’uomo tanto passionale e burbero nascondeva nel Villino delle Fate. In realtà, nascondeva solo se stesso.

Cinque maggio duemiladieci , cinque di mattina nel quartiere Coppedè.

Sulle scalinate del Villino delle Fate, una ragazza giovane dai capelli corvini aveva gli occhi chiusi e una ferita al petto. Rosso sangue su scalinate bianche. Un tiro mancino partito sotto la statua della Madonna col bambino. Era un avvertimento. Anzi, più che un avvertimento, un vero e proprio invito formale a Don Emilio Barrese, per unirsi alla nostra famiglia e smetterla di nascondersi. Gli uomini come noi non sono fatti per vivere in gabbia.
Ma questo la povera Cecilia non poteva saperlo. E non potrà conoscere più nulla. Perché per smettere di vivere le è bastato un tiro in otto secondi. E la voglia di innamorarsi.

CHRISTMAS LIGHTS (racconto)

E’ un caffè del centro. Il parco tanto ripreso nelle serie tv si apre sotto i miei occhi.
Parlano convulsamente. La borsa, i viaggi, il sesso, i regali, le ferie. Risate isteriche, finti sorrisi, carezze sotto i tavoli. Continuo a fissare la vetrina. New York sembra così piccola quando l’attenzione è su Jasmina occhiblu. Riscalda le mani con un cappello dei Chicago Bulls e 3 dollari. Ogni tanto caccia la foto della madre dalla tasca. Sospira e l’aria sembra aprirsi al suo respiro. Come formare bolle di preghiere. Poi punta un dito al cielo. Vorrebbe catturare una nuvola o forse dire “ odio tutto questo silenzio”.
Di nuovo dentro. Tacchi e tazze fumanti picchiettano in sincronia come sottofondo di una tradizionale euforia isterica. Mi chiedono della promozione, con una sottile insistenza. Leggo invidia a profusione nonostante l’attenuante natalizia. Vorrei rassicurare tutti che libererò presto il campo. Che non sarà il lavoro di una vita. Che mi sento comunque frustata lì. Che mi interessava un’esperienza all’estero e imparare la lingua. Che sento la solitudine gelare il sangue ogni sera. Che perderei tutti i miei capelli ricci se accettassi quella promozione. Per questo farò felice Emeli rifiutandola.
Era quello che avrei voluto dire. Poi ho pensato che quell’azienda stava investendo tanto su di me e che in Italia non sarebbero bastati dodici anni e un paio di conoscenze importanti per un salto di livello simile.
Ho liquidato tutti con il migliore dei sorrisi e il grande Walt “ Se puoi sognarlo, puoi farlo”.
Il vetro. Ha la faccia da “Benjamin” come l’anziano che viveva di fronte la casa romana durante gli anni universitari. Quello che metteva i vinili di Ella Fitzegerald quando restavo chiusa in camera tutto il giorno con i codici tra le mani. O faceva colazione alla finestra per dividerci l’alba silenziosa. Perché cercavamo entrambi un sorriso e la complicità.
Ben di NY si trascina con il bastone. Non riesce a fermarsi davanti Jasmina. Rallenta, trema, respira. Rallenta, trema, respira. Respira respira. Ma trema. Jasmina fissa il bastone. Vorrebbe fermarlo e prenderlo per mano. Niente, anche Ben americano in direzione ostinata e contraria. Prende una banconota grande con quel simpaticone omonimo. Vuole farcela. Jasmina sorride e non fissa più i suoi movimenti incerti. Lo guarda negli occhi e si sposta il ciuffo di capelli che pendeva sul viso. Poi allunga la mano, la stessa con cui puntava il cielo pochi istanti prima, e inizia a commuoversi. Ben è riuscito nella sua piccola impresa. E lei ha urlato “Happy Christmas, Mister Aaronson! God bless your family”.  Poi si è buttata sul suo grosso pancione coperta dal coppotto grigio fumo e ha stretto più forte. Sempre di più come volesse in un momento fermare tutto quel dolore. Come se per un attimo abbandoni e malattie  erano cancellate via dalla neve. Come se le luci rendevano giorno la notte. E notte il giorno. Tutto si incastrava perfettamente. Un orologio scandito perfettamente dalle loro emozioni. Era Natale. Fuori quel vetro era Natale ed io ero riuscita a vederlo.
Dentro fisso polso e colleghi. Nessuno a casa ad aspettarmi. Perché ero preoccupata dal tempo?  Ero in ritardo. CON TE. Mi avevi chiesto di venire a Milano. Di trasferirmi nella stessa città. Ogni volta non era la volta buona. Non era la nostra volta. Le ansie da carriera, incurabili. Volevi regalarmi serenità. E potevi farlo “da vicino”. Ho finto di non capire e ti ho dato dell’ ‘egoista’. Per una soluzione semplice e scontata.
Per chiudere con una nota stonata, l’armonia di due vite disorganizzate ma autentiche. Ho rincorso ‘Normalità’ per anni. Ho capito ora che non ci appartiene e non è così stabilizzante per due come noi. Noi. Due. Da quanto tempo non parlo di Noi . DI DUE DI DUE.
Ricordi quando ti dicevo: “ Voglio parlarti di mio padre tra le luci di New York”. Mi hai sempre risposto con un banale PERCHE’. Beh, se fossi qui capiresti.
cafe Lalo - NY city
Capiresti anche me e quello che sono,  attraverso i racconti di chi mi ha amato così incondizionatamente. Per una vita. Una intera dedicata a me.
Capiresti perché solo New York è alla sua altezza. E solo le sue luci rendono magico ogni discorso,  annientando la malinconia.
Vetro ultima volta. Sciarpa verde sul cappotto nero. Quello delle serate importanti. Mano sul petto. Voglio fermare tutto. Un momento. Uno solo e per sempre.
Di nuovo fuori. Sei fermo ma sorridi adesso. Mi vedi. Ci guardiamo ma io sono ancora dentro. Non riesco ad alzarmi,  gli altri ora non parlano più. Tu hai in mano un cartello bianco e me lo chiedi di nuovo:

“AMAMI"