giovedì 20 ottobre 2011

LA FATA DI COPPEDE' (racconto)

Cecilia e diplomazia non andavano d’accordo nell’ultimo periodo. La peroni 66 sopra il comodino la predisponeva al nervosismo quotidiano che le strizzava i collegamenti sinaptici, annebbiando i pensieri più tristi che ormai non se andavano più.
Era costantemente alterata con il mondo. Non riusciva né a scrivere né a studiare. Tormentata dalle ansie e le angosce di tutti i suoi brutti colleghi. Perché erano brutte persone, come si divertiva a ripetere schiettamente a mente alcolica. Non dava più importanza a nessuno. Non aveva più interessi o passatempi. Non provava più emozioni, cosa impensabile per una come lei, dato che fino a pochi mesi prima anche affondare  le dita in un sacco di legumi le donava uno stato di eccitazione incommensurabile.
Solo una cosa la divertiva ancora, in questa profonda apatia: la metro A della mattina.
Le permetteva di sognare ad occhi aperti per otto minuti.

Ma cosa successe il cinque maggio duemiladieci alle cinque di mattina nel quartiere Coppedè?

Cecilia prendeva ogni mattina la metro A. San Giovanni – Repubblica, solo quattro fermate.
In quegli otto minuti mattutini che la dividevano da una lucida scrivania ikea, si innamorava. L’innamoramento metropolitano era tra i più romantici. Bastava uno sguardo e pensava a una vita con il Lui delle 7.26 in qualche vigneto della Normandia più due cani maremmani più tre bambini: Jean, Paul e Sartre più un grembiule a quadretti rossi e bianchi da sporcare con residui di uova e farina.
Ogni volta lo stesso pensiero, ogni volta un sorriso.
Una delle tante mattine disincantate trovò il Lui delle 7.26 invecchiato rispetto alla media.
Barba curata, baffi alla Gable, occhiali Gramsci e Sein und Zeit tra le mani, ovviamente come nota di merito. Dal completo scuro e la cravatta anni cinquanta bordeaux consunta, poteva essere un ricercatore universitario che bramava più di Gollum la morte dell’Ordinario. Ma anche un avvocato societario con la passione per l’esistenzialismo.  Mistero.
L’uomo rifiutava ogni forma di coinvolgimento: rientrava nelle regole di vita per quelli come lui, che sono abituati a finzione e nascondiglio. Non poteva permettersi un facile innamoramento con una callcenterista - aspirante regista con quei capelli corvini e quegli occhi blu. Non con quelle labbra morse con facilità e frequenza per sotterrare l’imbarazzo provocato dagli occhi di un uomo adulto, il vero Lui delle 7.26. Non con quelle lentiggini, segno evidente di un primo sole di maggio. Non con quella disarmante espressività, impensabile senza parole. Musicalmente una polifonia di voci equivalenti.

Un rifugio di classe per l’Innominato , il vero Lui delle 7.26: il quartiere Coppedè, una città nella città. Ludicamente una casa delle bambole, che  prima di oltrepassare l’arco, la soglia del non luogo, si osserva attentamente. E quasi  dispiace irrompere in un simile equilibrio di colori e odori medioevali. È un non luogo, un non tempo. Ma senza spazio e tempo c’è  un’ impossibilità conoscitiva, avvertimento che doveva cogliere la sognatrice: Cecilia. Non arrivò mai a scoprire cosa quell’uomo tanto passionale e burbero nascondeva nel Villino delle Fate. In realtà, nascondeva solo se stesso.

Cinque maggio duemiladieci , cinque di mattina nel quartiere Coppedè.

Sulle scalinate del Villino delle Fate, una ragazza giovane dai capelli corvini aveva gli occhi chiusi e una ferita al petto. Rosso sangue su scalinate bianche. Un tiro mancino partito sotto la statua della Madonna col bambino. Era un avvertimento. Anzi, più che un avvertimento, un vero e proprio invito formale a Don Emilio Barrese, per unirsi alla nostra famiglia e smetterla di nascondersi. Gli uomini come noi non sono fatti per vivere in gabbia.
Ma questo la povera Cecilia non poteva saperlo. E non potrà conoscere più nulla. Perché per smettere di vivere le è bastato un tiro in otto secondi. E la voglia di innamorarsi.

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